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Oggi è la Pasqua, che è il giorno dell’impossibile:
ciò che sembrava morto, risorge
ciò che sembrava fallito, ricomincia.
È un po' come l’amore che fa i miracoli,
come un seme che diventa un fiore.
E allora dobbiamo fidarci di questo giorno di Pasqua
in cui tutto diventa possibile.
Si può risorgere, si può ricominciare con tutte le forze della speranza, con un soffio di vita, che scalda il cuore a chi pensava che tutto fosse finito.
Soltanto chi riesce ad avere occhi aperti,
solo chi riesce a non farsi ingabbiare dalla paura,
risorgerà con lui.
Lasciamo che il cuore ci dica
che è possibile avere quegli occhi aperti per vedere l’infinito dove apparentemente non si vede,
di vedere l’impossibile dove sembrava che tutto fosse finito.
E a parlare è la nostra sete, la sete di non darla vinta alla morte e di non pensarla definitiva, di riuscire a respirare ciò che è eterno;
di sentire la sua impercettibile e profumata presenza che si fa luce e ci brucia dentro, perché tutti abbiamo bisogno di risorgere.
Pace a voi!
Che vivete una vita che non grida più niente dentro,
a voi che vi raggomitolate
per offrire meno presa alla sofferenza,
vi dono in prestito la luce dei giorni a venire.
Pace a voi!
All'ombra dentro di voi.
Pace a Giuda, che immerge la mano nel tegame
e a Tommaso che immerge la mano nella piaga.
Pace a voi!
Che correte intorno a voi stessi senza trovarvi,
che dissipate invece di ricostruire,
pace ai pensieri che vi torturano.
Pace a voi!
Ai vostri sentieri spinosi in cerca di una casa,
un abbraccio appena giunti vi tolga ogni peso.
In quell’ultimo giovedì, al tramonto, Gesù pronuncia parole terribili su del pane e del vino. Parla di un corpo spezzato, di sangue versato.
Di un uomo consegnato. Cosa è stata la vita di Gesù se non un continuo e appassionato consegnarsi? Neppure il suo corpo ha tenuto per sé: “prendete e mangiate”; neppure il suo sangue: “prendete e bevete tutti”.
Sera del tradimento, che inizia con l’abbraccio degli amici e termina in catene.
Sera dell’abbandono: e, abbandonatolo, fuggirono tutti.
È difficile immaginare una celebrazione dell’amore più realistica dell’Ultima cena. Non ha niente di romantico, è uno scontro con la complessità dell’amore, con i suoi conflitti e la sua vittoria finale.
È il momento della crisi, quando Gesù passa per il fuoco; il momento in cui tutto è esploso, tutto sembra finire. Dice ai suoi discepoli semplicemente e liberamente che è arrivata la fine, che uno di loro lo ha tradito, che Pietro lo rinnegherà, che gli altri fuggiranno, nella notte, ingoiati dalla paura.
Eppure lava loro i piedi.
Volete sapere qualcosa di voi e di me? – dice Gesù a discepoli e discepole di ogni tempo – Vi do un appuntamento: uno che è posto in basso. Che cinge un asciugamano e si china a lavare i piedi ai suoi. Li lava perfino a Giuda, che lo tradisce.
Chi è Dio? Il mio lavapiedi. In ginocchio davanti a me. Le sue mani sui miei piedi.
Mi aspetto il dirompere della maestosità e Lui mi porta nel silenzio della terra umida, dove un chicco di grano sta partorendo la sua vita. Attraverso la morte. Non ci abitueremo mai ai paradossi del nostro Dio: perdere per trovare, dare per ricevere, morire per vivere; è una logica che ci afferra e ci scuote, ci trascina in voli impensati, su traiettorie imprevedibili.
“Tu non sai come spunta una gemma a primavera e come un fiore parli a un altro fiore e come un sospiro sia udito dalle stelle, tu non sai…” (David M. Turoldo).
Così parla al mio orecchio questo Gesù che mi invita a leggere i messaggi segreti della vita, quei miracoli umili e silenziosi, quella lezione per cui per imparare a vivere bisogna saper morire. Come un chicco di grano, che mentre muore non sa ancora di essere spiga, ma che sente che c’è un filo invisibile che lo tiene legato al futuro, anche Gesù teme il passaggio e ne resta “turbato”; ma a noi che preferiamo scappare insegna il coraggio: insegna che un chicco marcito nella terra sta preparando un’abbondanza di vita.
A me che voglio “vedere” suggerisce di “vedere un mondo in un granello di sabbia e un cielo in un fiore selvatico, di tenere l’infinito nel cavo della mano e l’eternità in un’ora.” (William Blake)