Le confessioni di un vescovo
Il Dio del vescovo Lauro è il medesimo Dio di don Farina. Pur su posizioni talora diverse, in una Chiesa che da istituzionale sa essere anche di frontiera, ed è ciò che la rende “umana”, la narrazione di Dio diventa un “consumare Dio”. Il suggestivo libricino che Marcello Farina, prete e filosofo, ha dato alle stampe per il suo ottantesimo genetliaco (11 ottobre) e che è stato presentato l’altro giorno al “Vigilianum” di Trento, consente al vescovo Lauro di dare testimonianza del suo rapporto con Dio. Che si fa umanità e che nel suo essere uomo diventa il vicino della porta accanto. Con il quale si può litigare, scontarsi e fare pace, ma dal quale non si può prescindere.
“La mia esperienza dell’incontro con questo Dio del Gesù di Nazareth è segnata in maniera pesante dall’esperienza del dolore”. E racconta di essere rimasto orfano del papà, nei giorni del suo compleanno, sei anni appena. Un papà morto in un incidente di caccia per un colpo partito dal fucile di uno zio. “Sono rimasto traumatizzato e quell’esperienza mi ha accompagnato ogni giorno e credo sarà così anche per l’avvenire. È l’elemento che ha segnato e sta segnando ancor oggi la mia vita”. Con ciò condividendo con Marcello Farina il dolore per l’affetto rubato. Pure lui rimasto orfano, della mamma, che aveva appena 14 anni.
“In forza di questo – racconta il vescovo Lauro - ho rifiutato fin da piccolo quello che mi si diceva su Dio. Io non riuscivo a tollerare questo Dio metafisico. È stata una cosa fastidiosissima fin da bambino. Dopo i vent’anni sono andato in conflitto fino al punto di pensare di chiudere la partita con l’esperienza della fede. Perché non mi appagava in nulla”. Ricorda pure il giorno di quella drammatica decisione personale: il 10 giugno 1984, il giorno in cui Francesco Moser vinse il Giro d’Italia. Era domenica e i cristiani celebravano la Pentecoste.
La svolta è avvenuta con la lettura di alcune pagine del Nuovo Testamento, la narrazione della morte di Cristo non in chiave devozionale: un Dio che ha paura, che ha sete, che prova angoscia. “L’angoscia del morire per vivere in eterno”, come scriveva il prete-poeta, cappellano degli Alpini, Onorio Spada (1913-1977). E il vescovo Lauro confessa di essere stato colpito dai versi di un poeta latino-americano il quale, parlando di Dio, lo ha chiamato “la sete che disseta”. Da quell’arsura è partita la sua ricerca personale, controcorrente, su Dio. “Andando per conto mio, mosso anche da questa fatica del vivere perché in quegli anni ho conosciuto momenti di confronto con la depressione. Sono arrivato all’ordinazione con tratti segnati dalla depressione. In quel periodo ho riletto tutto questo Dio che grida, che prova paura, che è angosciato. E ho trovato compagnia”. “Ho scoperto che il Dio dei cristiani è un Dio con le domande e non con le risposte. Quelle riflessioni hanno cominciato a dare risposte ai miei interrogativi sul dolore. In questo Dio delle domande, in questo Dio della sete e della paura, ho cominciato a percepire che il vero cristianesimo non è un postulato concettuale, ma è un camminare dentro l’umano”.
Racconta di aver riflettuto molto sul Dio che si lascia contaminare dalla cultura, dalla storia. “Nella mia storia personale frequento facilmente i malati terminali, alcuni di questi anche giovanissimi. Mi colpisce molto vedere i giovani che affrontano la partita oncologica in chiave del ‘fidarsi di Dio’. Un ragazzo di 17 anni, che chiamo “il mio maestro” mi diceva: “Io sento la compagnia di Gesù”.
In quei frangenti, confessa il vescovo Lauro, “sento la compagnia di Uno che non dà risposte ma mi permette di sentire che grida con me. Non c’è nulla del codice religioso su Dio in Gesù di Nazareth. Dal punto di vista ecclesiale lo abbiamo ingabbiato. Spero che lo lascino essere quello che è: il Dio disadorno, dell’umano, del Gesù di Nazareth, il Dio delle domande. Il Dio che rispetta l’alterità. Tutelare la diversità dell’altro non è un atto di tolleranza, è un atto di grandezza. Se non lascio esistere l’altro è la fine. Così questo è un Dio che non toglie spazio ma lo regala”.
E di rimando, Marcello Farina ribadisce “quanto sia importante anche per i cristiani focalizzare tutta la loro attenzione sull’umano, non sul religioso. Sogno una Chiesa che accompagna, che sa che cosa vuol dire la fatica dell’umano, che non lo fa tacere”.
Carmen Abbattista, la teologa che ha stimolato l’incontro, non può che annuire. Sorridendo.
Alberto Folgheraiter