Con mani di donna
Ora, Maria era rimasta presso il sepolcro, fuori, a piangere. Mentre piangeva, dunque, si chinò verso il sepolcro e vede due messaggeri in vesti bianche seduti, uno presso la testa e uno presso i piedi, dove giaceva il corpo di Gesù. E costoro le dicono: “Donna, perché piangi?”. Dice loro: “Hanno preso il mio Signore e non so dove lo hanno messo”. Detto questo, si voltò indietro e vede Gesù che stava lì: ma non sapeva che fosse Gesù. Le dice Gesù: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?”. Lei, credendo che fosse il giardiniere, gli dice: “Signore, se tu l'hai portato via, dimmi dove l'hai posto ed io lo prenderò”. Le dice Gesù: “Miriam”. Lei, voltatasi, gli dice, in ebraico: “Rabbunì!” (che significa «maestro»). Le dice Gesù: “Non mi trattenere: non sono ancora salito, infatti, al Padre. Va' piuttosto dai miei fratelli e dì loro: salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro” (Giovanni 20:11-17)
Ricordo ancora lo sconforto che m'invadeva l'anima in quel mattino che ancora doveva sorgere, in quella luce tenue che ancora non scaldava il volto e il cuore. Era poco prima dell'alba ed il chiarore si indovinava appena dietro l'orizzonte: e nessuna aurora, credevo, si sarebbe levata in me. Era morto, l'avevano ucciso: come un malfattore l'avevano inchiodato al legno. Lui, che mai aveva incitato alcuno alla violenza o all'odio; lui, che per lunghi giorni avevo accompagnato per i sentieri sterrati della Galilea e sin dentro i villaggi di quella regione di contadini e pescatori. Avevo deciso di seguirlo anche quando ci annunciò che si sarebbe recato a Gerusalemme, laddove avevano dimora quei potenti che -anche lui sapeva- lo volevano morto.
Era il giorno prima del sabato, e non era ancora sceso il tramonto a colorare il giorno con la sua luce d'ombre: fu allora che vidi dove conducevano il suo corpo immobile, avvolto in un sudario. Le mie viscere s'erano disciolte in lacrime e gli occhi soltanto seguivano da lontano quel corpo amato, senza che le braccia potessero cingerlo in un ultimo saluto. Poi calò il buio anche sugli occhi: aveva il colore della pietra che fecero rotolare, lenta come il dolore che mi scavava dentro, dinanzi al suo sepolcro. E fu come se mi avessero strozzato il pianto.
Il giorno seguente mi avevano invaso il silenzio e l'assenza di lui. Non risuonava tra i vicoli di Gerusalemme la sua voce, non danzava più libera tra terra e cielo. Muta era diventata la vita, muto lo scorrere lento dei miei istanti vuoti.
Tornai col pensiero a quei sorrisi che i semplici riuscivano sempre a strappargli, alla tenerezza che suscitavano in lui quanti faticavano sotto il peso della vita, a quel suo sguardo che accarezzava, a quelle sue braccia sempre tese verso quanti si sentivano lontani da Dio, rigettati. Voleva che nessuno rimanesse incatenato al proprio passato, desiderava che ciascuno tornasse a credere in sé, a nutrire speranza, a costruire futuro. Nulla era così grave, per lui, da poter compromettere la possibilità di una vita nuova. Desiderava questo per ognuno che incontrava, desiderò questo anche per me e mi insegnò a desiderarlo: comprensività. E lungo sentieri che giacevano abbandonati e ripercorrendo cammini ormai smarriti, mi ricondusse sino a me stessa, riconducendomi a Dio. Così, con un sorriso lieve che il ricordo di lui fece affiorare alle labbra, mi addormentai.
Era ancora buio quando riaprii gli occhi: andai sul retro della casa, avevo voglia di stare sola a osservare l'aurora che strappa il velo scuro della notte a piccoli morsi. Al chiaro di luna e sotto la carezza di un vento lieve che annunciava la primavera, finii di preparare gli unguenti con cui avrei sfiorato il suo corpo per l'ultima volta: noi donne diciamo addio con le mani a quanti abbiamo amato. Gli uomini salutano la morte dell'amico con la fugacità di uno sguardo: gli uomini non hanno la nostra forza.
Decisi di andare incontro al mattino, di salutare il nuovo giorno accanto a lui. Da lontano, ebbi come l'impressione che la pietra che avevano posta dinanzi al sepolcro fosse stata rotolata via. Mi spaventai e corsi a chiamare gli uomini che erano con me in Gerusalemme.
Tornata alla tomba insieme con loro, lasciai che vi entrassero per primi. Io attendevo fuori. Temevo di sporgermi sul sepolcro: temevo quanto avrei potuto vedere, ciò che il mio sguardo non sarebbe riuscito a scorgere. Poi presi coraggio e sbirciai: e fu confermare i miei timori. Il suo corpo era scomparso, qualcuno lo aveva portato via, lasciandomi senza il conforto delle ultime carezze, lasciandolo senza l'addio silenzioso delle mie mani.
Non fece in tempo a invadermi lo sconforto, che scorsi due figure, un uomo e una donna, mi sembrarono, poste l'una al capo e l'altra ai piedi del luogo in cui giaceva il corpo di Gesù. Con voce dolce e serena, la donna mi domandò: “Perché piangi?”. E fu come una carezza sul volto, ad asciugare il pianto. Tra i singhiozzi, le risposi: “L'hanno portato via”. Un dolore muto mi impedì di aggiungere altro alle mie parole.
Ascoltai dei passi alle mie spalle e mi voltai: nella penombra di quell'alba non ancora sorta vidi un uomo venire verso di me. Si fermò mentre era ancora lontano e mi rivolse la stessa domanda: “Donna, perché piangi?”. E mi parve che lo domandasse a tutte le donne, in quell'istante. Mi attraversò il timore che potesse essere stato lui a portare via il corpo e lo supplicai: “Ti prego, se l'hai portato via tu, dimmi dove l'hai messo!”. Ma lui, senza rispondere alla mia domanda, rispose al mio dolore e mi chiamò. Pronunciò il mio nome, albero capovolto, che ha radici nel vento: “Miriam”, che è come dire indomita, ribelle. E fu tempesta nel cuore e un palpito lo percorse e mi spinse verso di lui: “Maestro!” -gli gridai-.
Le donne sussultano quando a pronunciare il loro nome è una voce amata. Noi donne diffidiamo delle parole: noi diamo ascolto alle voci.
Corsi per cingerlo tra le braccia. Corsi, ma la sua voce, quella stessa che mi aveva sospinta verso di lui, mi trattenne: “Lasciami andare, Miriam: non è a me, a questo mio corpo, che devi legarti. Ora è tempo di vivere l'assenza: tempo fecondo, com'è fecondo il solco che scava una ferita nel cuore della terra perché dia frutto. Io torno a Dio, da quel Padre mio e Madre vostra di cui ho compiuta la volontà perché anche voi la compiate. Imparate ad afferrarvi a Dio, praticando la giustizia e la misericordia, che è volgere il cuore ai miseri: questo è un laccio invisibile e forte, che nessuna morte può spezzare”. Ci separammo, senza sfiorarci se non con lo sguardo. Imparai l'amore nel distacco, che impedisce il possesso. Appresi come una voce possa seguire a danzarci nell'anima, più calda di qualsiasi abbraccio, libera da quella stretta con cui, spesso, finiamo per soffocare l'amore.
E danza libera, quella stessa voce, nelle mie parole, che ora sono tornate a percorrere i villaggi e le campagne ove egli un giorno mi aveva chiamata. E ogni volta che il giorno declina e l'orizzonte si tinge dei colori tenui dell'imbrunire, quella voce amata risuona in me e con dolcezza mi spinge a varcare la notte, sino a rincontrare, timido, il tiepido abbraccio dell'aurora. E allora mi rimetto in cammino, con caparbietà di donna: io, Miriam di Magdala, ribelle a cui Dio ha chiesto, un giorno, di prestargli le labbra.